Sto per cominciare il nuovo corso di Editoria Digitale per il Master in Editoria dell’Università di Verona, e ho pensato che può valere la pena raccontare come cambia, per me, insegnare questa materia nei vari contesti in cui mi capita di farlo. Due anni fa scrivevo un articolo simile a questo, e dicevo:
Sono passati dieci anni, e sono felice di fare ancora corsi sull’editoria digitale. Quello che dopo tanto tempo mi va invece molto stretto è il bisogno di doverla ancora distinguere da un qualche tipo di editoria analogica. È dagli anni ’80 che l’editoria di analogico ha ben poco: il libro e i suoi processi di produzione sono digitali dalla prima stesura del manoscritto (che continua a chiamarsi così anche se non implica carta, penna e calamaio) fino all’ultimo passo prima dell’andata in stampa. E a volte si tratta persino di stampa digitale.
Eppure, nelle case editrici, il digitale continua a entrare troppo spesso malgrado chi le dirige e ci lavora, e in genere dalle porte sbagliate: dal rumore e non dalla strategia. L’editore va a caccia di farfalle: di autori “famosi su Twitter”, di magiche “viralizzazioni” che sembrano epidemie di influenza, di metriche che significano solo vanità e non sostanza, e l’elenco potrebbe proseguire.
Mi piacerebbe dire che noto grandi differenze, ma salvo eccezioni mi sembra che siamo più o meno ancora a questo punto. Per fortuna, però, la formazione che continuo a fare sull’argomento, non sempre destinata agli editori, evolve ogni anno: se alcuni discorsi generali continuo a non darli per scontati, le parti che riguardano prodotti e processi le rinnovo spesso. Vi racconto cosa sono riuscita a fare in un paio di casi recenti.
Cosa ho cambiato nei corsi sull’editoria digitale
A seconda del numero di ore a disposizione, cerco di trovare un equilibrio tra teoria e pratica: se cinque anni fa una lezione frontale funzionava ancora bene oggi è raro che sia così. È principalmente la pratica ad aver cambiato il volto delle lezioni.
Grazie a Luigi Civalleri, che continua sconsideratamente a invitarmi per parlare di editoria digitale all’interno del Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” alla SISSA di Trieste, ho potuto sperimentare diversi metodi per rendere il senso del lavoro di progettazione – di design, dovrei dire, ma in italiano mi sembra più chiaro – per chi si occupa di progetti editoriali in senso lato.
Quest’anno, per esempio, ho lavorato per far capire quanto le tecniche di co-design siano utili per definire correttamente i problemi da risolvere, e stabilire le priorità. Ho proposto un diagramma di affinità (o affinity map) per far emergere i problemi di un sito di comunicazione scientifica conosciuto da tutti gli studenti. I problemi sono emersi in modo così chiaro che non è stato necessario raffinare i risultati attraverso il dot voting che avevo ipotizzato di associare. «Ma se è così semplice trovare i problemi anche quando tante persone sono coinvolte nel processo… perché gli editori non lo fanno?», ha detto una studentessa, illuminandomi la giornata. Se non è semplice, almeno è possibile.
Ho provato un percorso simile anche nella formazione fatta a luglio in una grande gruppo editoriale. Il cuore del corso era la produzione di eBook, parte di cui si è occupata l’ottima Valentina Voch con cui collaboro in queste circostanze: io non mi occupo di produzione di libri digitali da troppo tempo per insegnare come si fa, anche se capita che me lo chiedano ancora. Il mio compito, in questo caso, era di sparigliare le carte con una lezione introduttiva: un’assaggio di co-design è riuscito a dimostrare come si possono cambiare le abitudini più radicate. La scomodità che ho visto negli occhi di alcuni partecipanti e alcune prese di coscienza molto oneste mi sono sembrate un segno di buona riuscita (ma giuro che nessuno è stato maltrattato!).
Avvertenza: il co-design è una cosa seria!
Tenete presente che non sono una facilitatrice: quelli che propongo sono solo assaggi di tecniche in cui non sono specializzata, e quando le scelgo faccio attenzione a usare dinamiche semplici, alla portata della mia piccola esperienza. Si rivelano efficaci: aprono una finestra su un metodo di lavoro così diverso da essere quasi copernicano e mostrano una strada nuova per raggiungere la soluzione dei problemi. I partecipanti, non abituati e non preparati a collaborare tra loro, ci si affacciano con il disagio tipico dei lavori di gruppo in classe: diffidenti, imbarazzati, alcuni curiosi e divertiti. Arrivano alla fine stupiti dei risultati ottenuti grazie alla partecipazione di tutti.
All’interno dei circoli viziosi in cui l’editoria è impantanata, questi esperimenti sembrano avvicinare l’impossibile: far capire, cioè, che è davvero questione di cambiare mentalità e metodi, prima di ogni altra cosa, per raggiungere risultati che si possano davvero definire cambiamenti.
Nuove materie, vecchie materie

I legami tra editoria e digitale, per quanto mi riguarda, non ruotano esclusivamente intorno ai libri. Se è vero che parte del mestiere dell’editore è saper trovare la miglior forma per i contenuti che seleziona, non è detto che oggi si debba finire sempre tra carta e colla (o bit costretti alla linearità forzata di un ebook).
Ho avuto l’occasione di insegnare per la prima volta Ux Writing nel master in UX Design per il Talent Garden di Milano. Bellissima sfida dover imparare come trasmettere qualcosa che finora ho solo fatto e mai spiegato (e la sfida nella sfida, farlo in 4 ore); la cosa migliore è stata la quantità di cose che ho potuto imparare io stessa dagli studenti.
Capita soprattutto quando si tratta di master pensati per chi già lavora e deve migliorare delle competenze – e come sapete gode già per questo della mia stima. La freschezza nei punti di vista, nelle domande che hanno una concretezza difficile da soddisfare, la praticità nel trovare soluzioni, tutto questo mi arricchisce in modo incredibile.
Una ragazza mi ha domandato: «Com’è fare il mestiere di ux writer, nella pratica? Se ne legge così tanto…» Non amo le risposte “giuste”, in questi contesti: penso che il mio compito, da insegnante-professionista, sia quello di dare risposte schiette. Ecco perché le ho risposto che questo lavoro è un casino. Bello, certamente, ma niente – come dovremmo già sapere – funziona come in un manuale.
Nella mia esperienza, per ogni nuovo progetto serve inventare un flusso per far girare gli ingranaggi: la raccolta delle informazioni necessarie per lavorare, il coordinamento con il team di design, il rapporto con gli stakeholder, la produzione concreta dei testi, i cicli di approvazione e rilascio. Nei manuali, in qualunque lingua siano, sembra esistere una sequenza ordinata di azioni, uno scambio idilliaco di informazioni tra tutte le persone coinvolte nel progetto, e tutto quello che resta da fare è concentrarsi sulla perfetta sfumatura di significato da scegliere. Del resto si deve pur trovare il modo di scriverli, questi benedetti libri, lo capisco.
Non è così quando si lavora, è meglio mettersi l’animo in pace: allenarsi a gestire situazioni caotiche e trovare il modo migliore per arrivare al risultato in quella specifica circostanza.
Cosa vuol dire editoria digitale, nel 2019?
Vuol dire molto di più di quanto agli editori piaccia sentire, e continua a essere vero, loro malgrado, che non sono più gli unici attori in campo. Oggi guardo con grande curiosità al mondo di contenuti audio, a volte derivato direttamente dal libro (audiolibri) a volte pensato fin dall’origine per la voce e l’ascolto (podcast, audioserie, altri adattamenti): un nuovo mestiere da imparare.
(Editoria) digitale continua a voler dire imparare a usare bene strumenti che ci piacerebbe dare per assodati: fare bene un sito, fare bene una newsletter, saperla distinguere da una DEM, capire perché si usano i social network (e magari anche come, o anche solo la differenza tra una @ e un #, vi prego). O ancora, capire come gestire un eCommerce. O come evitare di additare perennemente il cattivo (Amazon, naturalmente) dimenticandosi di condannare con la stessa veemenza i propri panni sporchi.
Le cose di cui parlare, intorno al rapporto dell’editoria con il digitale, sono ancora tante, ne sono convinta. Ci provo anche quest’anno.
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