Tergiverso da tempo su molte bozze, ma questo post si è imposto per urgenza. «Con la follia della giovinezza possiamo raggiungere risultati inimmaginabili»: mi perdonerà Guido Tonelli se gli attribuisco un virgolettato impreciso, ma quando ho avuto la fortuna di ascoltarlo al Salone del Libro di Torino, quest’anno, non sono riuscita a gestire da brava cronista l’impatto emotivo della sua affermazione convinta ed entusiasta. Al contrario, mi sono molto, molto commossa.
Seguo eventi legati ai libri per lavoro: come è normale non tutto mi interessa a livello personale. Probabilmente Tonelli avrei scelto di ascoltarlo in ogni caso: mi incuriosiscono molto la scienza e la divulgazione scientifica e non capita spesso di avere l’occasione di ascoltare qualcuno del suo spessore umano e culturale. Per serendipità imposta, invece, mi trovo più spesso ad ascoltare personaggi e idee che non avrei mai preso in considerazione: in genere incappo per un verso o per l’altro in qualche spunto interessante e mi sento fortunata, perché altrimenti avrei perso un’occasione. Quest’anno la fortuna mi ha assistita meno del solito.
VIAGGIO NELLE PALUDI DELLA TRISTEZZA
Mi sono trovata immersa in una sconfortante e sconfortata palude zuppa di signoramia, in cui echeggiavano – rigorosamente privi di confronto – alti lai sul genere trito «i quindicenni d’oggi non sono più in grado di leggere Dante e Montale», «sì, carini gli scienziati, ma la cultura umanistica è La Cultura», «un articolo su Internet non è certo all’altezza di un approfondimento autorevole letto sulla carta: cosa vorrai mai approfondire, su Internet»… Sono certa che da qui in poi, considerata la scarsa fantasia degli argomenti, siete in grado di continuare da soli il lamento funebre sulla decadenza della Cultura e del ruolo dell’intellettuale – sedicente, spesso; presunto, in genere; vero, di rado –, distrutto come la statua di un vecchio dittatore destituito dal “popolo della rete” (cit.), che con superficiali “cinguettii” (cit.) pretende spazio e voce, là dove era usanza spartirselo in pochi.
Il cambiamento del ruolo dell’intellettuale è una cosa seria, lo intuisco persino io che sono lontana da essere in grado di discuterne in modo approfondito. Ma chi desidera parlarne sarebbe il caso lo facesse con armi e strumenti appropriati. Tra questi servirebbe una conoscenza della rete che vada almeno due passi più in là degli articoli di colore sulla stampa generalista, per esempio. O del «mio cugino una volta ha aperto un account su Facebook».
È diventato insopportabile il vanto di posa, ostentato e ostinato, sulla propria sciatteria tecnologica: «Ah, io non me ne intendo di quelle cose lì.» «No, io [inserire nome di un social media qualunque] non lo uso, sono tutti stupidi.» «Figurati, su Internet ci sono solo castronerie. Non leggo certo Wikipedia, io.» Partendo da queste basi qualunque opinione sulla rete finisce dritta al bancone del bar, e no, il numero di letture di Dante o Montale in questo caso non sarà rilevante né pertinente. La letteratura non garantisce onniscienza: se si ha un trabocco di ego di questa portata è probabile che si sappia molto, forse, ma che non si sia capito un granché.
LA PAROLA AI FILOSOFI
David Weinberger – filosofo, dettaglio rassicurante per alcuni – scrive in Too Big to Know: «La catena dell’autorità non ha fine. Un’autorità è una pagina su cui decidiamo di non cliccare alcun link.» La responsabilità dell’attribuzione di autorità non è più (soltanto) calata dall’alto. È nostra, in gran parte. Ed è più faticoso, certo, rispetto al fidarsi a scatola chiusa di qualcosa perché l’ha-detto-la-TV, era-scritto-sul-giornale. «L’ho letto su Internet» è figlio della stessa mentalità illetterata e disabituata alla responsabilità, non è un parto mostruoso della rete stessa. Mi spaventa molto di più un mondo in cui non può nemmeno venirmi in mente di verificare quanto letto su un giornale o sentito in televisione perché non ho la possibilità di accedere alle fonti dell’informazione.
Il nostro mondo di informazioni è ricchissimo, quasi una vertigine: districarsi, lo dicevo, è più faticoso, bisogna continuamente imparare come mantenere l’orientamento. Rimanere influenti, fare la differenza, essere autorevoli, oggi, non è un traguardo, non è una poltrona a vita. È un lavorio continuo, un impegno col piglio della missione, volendo dirla grossa: e non credo che sia mai stato tanto diverso. È che in molti, oggi, si sono seduti. Hanno ceduto alla pigrizia di pensiero, alla comodità dello status quo che adesso è drammaticamente in discussione. L’equilibrio si è rotto: la povertà di idee e il brancolare nel buio sono esposti in modo osceno in chi non si dà da fare e spera di campare di rendita.
LA PAROLA AL BIANCONIGLIO («È TARDI!»)
Non c’è più tempo. Il mondo è cambiato sotto i pavimenti di quelle sedie, mentre nessuno tendeva le orecchie per ascoltarne gli scricchiolii. Ed è sconfortante assistere al modo in cui si costruiscono camere dell’eco da far impallidire la più ingegnosa filter bubble, in cui ci si riunisce compiaciuti del sentire la propria voce restituita dalle pareti, senza argomentazioni o idee alternative, senza il fastidio dei dubbi e con tante certezze costruite su opinioni mal fondate. «Il 39,1% dei dirigenti e professionisti italiani in un anno non apre neppure un libro», ci allarmavamo nel 2015. Dal momento che la classe dirigente italiana non era composta allora come ora né di quindicenni né di trentenni, forse i partecipanti alle camere dell’eco avrebbero bisogno di rivedere i destinatari delle loro sconfortate lamentazioni.
Marco Stancati fa notare nel suo articolo per Tech Economy «le vibrazioni nervose degli scrittori e degli editori tradizionali ai quali la dichiarazione del direttore del festival Ernesto Ferrero (“Oggi il grande romanzo intellettuale non è scritto dagli umanisti ma dagli scienziati”) non è piaciuta poi tantissimo.» Per fortuna esistono ancora scrittori ed editori curiosi verso ciò che non conoscono, con sufficiente onestà intellettuale da non sentirsi in dovere di avere un’opinione su tutto e che non si sentono insidiati nel loro ruolo e mestiere dall’aumentare delle voci in circolazione.
Non mi sento coinvolta da nessun recente “grande romanzo italiano”, considerato quanto spesso quelli a cui viene appuntata questa medaglia sono contorte nostalgie di adolescenze rimpiante. Maschili, manco a dirlo, ma questa è un’altra questione ancora. Distanti, anacronistici, incapaci di parlarmi. È anche per l’enfasi con cui ci si attarda in queste nostalgie, miopi persino nel guardare al passato rimpianto, che stiamo perdendo il passo verso il futuro. E il problema non è certo aver chiaro cosa sia il passato o l’importanza di rallentare per mettere in prospettiva storica ciò che succede. Il problema è la cantilena stucchevole del non-è-più-come-quando-ero-ragazzo-io, sorda e ottusa, infastidita da chi è giovane perché non ha alcuna vera volontà di capire o conoscere.
LA PAROLA AI POETI E AI VISIONARI
La visionarietà poetica della fisica, messa continuamente alla prova della realtà, dei conti da far quadrare, degli intoppi tecnici, invece, mi coinvolge eccome: avvincente, raccontata con parole precise e raffinate; una storia fatta di ascolto, fiducia, confronto, curiosità e speranza. Nessuna di queste parole mi è venuta in mente ascoltando quelli che dovrei considerare come autorevoli esponenti del mondo delle Lettere; più spesso ho pensato al loro contrario. Che occasione persa. «Filosofi e umanisti devono contribuire a disegnare una visione più rotonda del mondo che la scienza contribuisce fortemente a determinare», diceva Tonelli, che torno a virgolettare in malo modo: le scoperte della fisica partono da domande umanissime, e se sono gli umanisti stessi i primi a essere ciechi di fronte a questo, come possono pretendere di mantenere credibilità e autorevolezza?
«Quando la nostra conoscenza verrà messa in crisi saremo felici, perché vorrà dire che staremo progredendo nella conoscenza. Vorrà dire che con la stessa dinamica che abbiamo messo in atto in noi, insistendo davanti a un “siete matti”, grazie ai giovani scienziati di oggi saremo in grado di costruire la nuova fisica, di capire meglio il mondo.» Così ragionano gli scienziati, ho imparato. Dando spazio e fiducia ai giovani, ricordandosi di quando lo sono stati anche loro, consapevoli che le soluzioni in grado di cambiare tutto possono venire anche dall’ultimo che si unisce alla ricerca; senza timore di mettere le idee alla prova attraverso il confronto, pronti a guardare avanti, forti e fiduciosi nell’aumentare continuo e progressivo della conoscenza.
Così mi piacerebbe veder ragionare gli umanisti. Con le mani e la testa nel mondo, con a cuore la comprensione delle cose. «Se io non mi occupassi dei cambiamenti della civiltà il mio scrivere mi sembrerebbe inutile», ha detto Marilynne Robinson, premiata da Michela Murgia con il Premio Mondello. Ci sono ancora molti che non hanno perso la curiosità e la voglia di pensare, senza paura di sporcarsi le mani. Diamogli più spazio possibile.
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